lunedì 12 febbraio 2018

L'esame da cintura nera: il segno di un cambiamento

La cintura nera è uno stereotipo conosciuto da chiunque: siamo cresciuti con l'idea che nelle arti marziali possedere la cintura nera fosse il segno che contraddistingue un esperto rispetto ad un principiante.

Si presuppone che una cintura nera... sappia menare!

Molti di noi si sono sognati di notte il fatidico momento nel quale iniziare ad indossarne una, poter dire a mamma, papà, nonni, fratelli, fidanzati/e: "Sono una CINTURA NERA!!!"...

Questo momento accade di solito tramite un esame... e prima o poi avviene, se si ha abbastanza costanza nel proprio percorso.

Si freme per far avvenire questo importante cambio nell'abbigliamento... ma lo si percepisce anche con una maturità diversa, per esempio un paio di decenni dopo che è accaduto: cambiano alcune cose, molte cose... rispetto alla visione che avevamo un tempo. Per me ora almeno è così!

Mi sono deciso a scrivere questo Post per via del - fortunatamente - alto numero di passaggi di grado che ordinariamente avvengono nel Dojo nel quale insegno: ogni anno gli esami DAN sono in aumento, quindi mi soffermo volentieri a pensare cosa è significato per me divenire shodan, e come far vivere al prossimo questo passaggio in modo più costruttivo possibile.

Rispetto ai miei studenti di adesso, iniziamo col dire che una volta eravamo molto meno consapevoli di ciò che stavamo facendo: non venivano dati tanti "perché", io facevo ciò che il mio Maestro mi diceva, non mettevo in discussione proprio nulla... e ci davo dentro a più non posso.

Ora ci sono più informazioni che circolano, anche grazie al Web... c'è più offerta di formazione sul territorio, più possibilità di incontrare diverse didattiche ed approcci all'Aikido: credo fermamente che le aspiranti cinture nere di oggi siano più fortunate!

Anche il livello medio degli insegnanti si è parecchio alzato: il mio primo Sensei ha iniziato ad insegnare quando era 1º kyu, figuriamoci che storia lunga di pratica possedeva alle spalle!

Il primo improvvisato è stato semmai lui: figuriamoci con quale preparazione potesse insegnarci per cose!

Noi però forse un tempo eravamo mediamente più motivati rispetto ad alcuni praticanti odierni: ogni difficoltà era una sfida con noi stessi, ogni correzione ricevuta era motivo di ringraziamento di chi ce la faceva.

Ogni giudizio generico è ovviamente parziale, ma noto come alcuni di coloro che si avvicinano a questo "cambio di paradigma" siano meno disposti a sudarsela sta cintura nera... c'è meno voglia di mettersi in discussione e - sempre genericamente parlando - una tendenza a sopravvalutare le proprie capacità da parte degli allievi: un po' di ego di troppo, insomma

Noi attendevamo che il nostro Sensei ci comunicasse che a suo dire eravamo pronti: oggi alcuni si offendono se non li fai sostenere gli esami quando loro lo ritengono opportuno.

C'è più senso critico da parte dei praticanti, e questo lo trovo parecchio positivo.... perché creano meno dipendenze dl proprio Maestro, ma non è detto che utilizzino questa emancipazione nel modo più maturo però: forse un giorno anche questo evolverà in modo più consapevole, almeno questo è ciò che mi auguro.

La cintura nera non credo debba essere rincorsa come un miraggio; quando si è nel deserto, può essere particolarmente pericoloso andare troppo alla loro ricerca...

... possiamo parare invece di importante cambiamento di paradigma, questo si!

Per molto tempo - ed anche per me - è stato difficile comprendere come lo shodan sia considerato solo l'inizio del percorso Aikidoistico: ricordo ancora la mamma di una mia allieva che credeva che la figlia "avesse finito il corso" di Aikido una volta ottenuta la cintura nera!

Quindi questa cosa di connotare con la parola "fine"-"esperto"-"traguardo" un pezzo di stoffa scura che ci cinge i fianchi è più che radicato in noi... ma è anche fuorviante, ora lo so per esperienza.

Cosa cambia quindi DOPO lo shodan?

Che se era la cintura nera che si desiderava indossare, d'ora in avanti si indosserà solo più quella: basta cambiamenti; se era l'hakama ciò che si desiderava calzare, avremo il nostro feticcio... ma non ci saranno più simboli a mostrare un'ulteriore evoluzione che coinvolge i nostri vestiti... l'evoluzione dovrà essere dentro!

In parole povere, iniziamo a chiederci perché facciamo ciò che facciamo, e se ed a quale livello di profondità intendiamo continuare: c'è meno apparenza/appariscenza... e più sostanza, e non è detto che ciò sia facile da digerire per tutti.

Un adolescente sogna il momento in cui prenderà la patente di guida, in cui sarà indipendente dai genitori e potrà spostarsi (quasi) in modo libero: capite bene che è un'altra cosa avere le idee chiare sul percorso lungo il quale guidare la propria autovettura.

Questo di solito accade dopo lo shodan: se si è parte di un Dojo un minimo strutturato, si vedono impennare le proprie responsabilità e le richieste da parte del Sensei, vengono a ridursi gli "spazi di gioco" che prima venivano tollerati... si viene investiti del ruolo di "esempio da seguire" per i neofiti... insomma un sacco di cose che portano a chiedersi: "È veramente questo ciò che volevo?!".

"Ora che si inizia a fare sul serio, riuscirò e vorrò veramente fare sul serio?"

Ecco che possono accadere un paio di reazioni opposte fra loro: c'è chi si spaventa di tutto ciò... e si dispiace di non poter più "giocare al corso di Aikido", e magari se ne va... e chi entra ancora una volta più nel personaggio, comprendendo sempre più dal di dentro come maggiori onori e maggiori oneri non possano che procedere in parallelo.

Poi, possedere la tanto famigerata "cintura nera" e percepire i propri movimenti all'incirca goffi e scoordinati come un tempo... risulta però più pensante e svilente rispetto ad un tempo: si stringe il giogo che ciascuno dovrebbe concedersi, e quindi si capisce bene perché lo shodan venga tradizionalmente percepito come "l'inizio" e non come la fine di un qualcosa...

Non cambieranno le cose che faremo, ma lo spirito con il quale le faremo SI!

Ci riscopriamo eternamente "non arrivati", né "arrivabili"... ce ne frustiamo e così iniziamo a comprendere sul serio il percorso nelle arti marziali: non è più il plauso del Maestro o dei nostri compagni a farci sussultare il cuore, quanto quello che noi sapremo riconoscere a noi stessi per ogni minima conquista strappata con i denti alla nostre ombre tenaci ed infide.

Sembra roba brutta, ma non è così... anzi: è un passaggio essenziale verso una maturità maggiore, una possibilità più grande di fare la differenza con se stessi... un'opportunità che solo uno sciocco non coglierebbe al volo!

Oppure una persona non troppo motivata ed interessata solo allo status quo di figaccioni che si siedono più a destra nella fila: ma quei posti hanno un prezzo, per fortuna di tutti...

È meglio occuparli con onore, o non occuparli proprio!

Sono riuscito a riesumare il video record di quel famigerato giorno, anzi di QUEI famigerati giorni, giacché un tempo davamo un esame di tai jutsu ed uno a parte solo per il buki waza...

Fra pochi mesi saranno passati 20 anni... e condivido con piacere questi filmati con ciascuno di voi, pur ritenendoli qualcosa di molto personale e quindi anche intimo.

Shodan taijutsu, Ancona - settembre 1998



Shodan buki waza, Torino - aprile 1999




I video hanno la qualità tipica del tempo, ma anche i miei movimenti - a dire il vero - non è che avessero tutta questa qualità: c'era rigidezza, contrazione, scatto, un po' di paura e rabbia anche... l'importante è averci lavorato su per i 20 anni successivi, secondo me... ed avere intenzione di farlo anche nei prossimi 20!

Ringrazio di cuore il mio Sensei di allora, Paolo Corallini Shihan, per i preziosi insegnamenti tecnici e per la passione che ci trasmetteva: nel riguardare questi video, il cuore sente nuovamente un poco la magia di quei momenti, facendo comprendere - con il senno di poi - come essa sia stata vissuta in modo inutilmente eccessivo da un lato... e sottovalutata al contempo da un altro.

Forse, lo shodan ha senso e si illumina alla luce di ciò che viene fatto prima di sostenerlo e di ciò che viene fatto dopo per continuare a considerarlo proprio.

Marco Rubatto

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